C’è, nelle campagne a sud di Ravenna, tra Classe e l’attuale linea di costa, quel che resta di un’antica torre di guardia nel punto in cui alla fine del 1600, alla foce del Candianazzo, si trovava l’accesso dal mare alla città. Torraccia o Turaza in romagnolo, ‘sta lingua piena di zeta senza zeta , faceva parte della compagine difensiva rappresentata da un sistema di torri lungo l’Adriatico e si trova oggi a circa 3,5 km all’interno dell’attuale litoranea, per effetto di quella sinergia di fenomeni che ha incessantemente sottratto e ceduto terre al mare (o acque alla terra, dipende dal punto di vista). E’ come un faro che si ritrova solitario in mezzo alla vasta campagna coltivata, è la sentinella delle inesauste trasformazioni del paesaggio, dell’incessante piglia e lascia* dei due amanti che da sempre con le loro reciproche lotte per il territorio cambiano la faccia del pianeta.
Mozza al di sotto dei merli, diroccata già all’inizio del 1800, la potente muratura in elevazione con base a scarpa si presenta rosicchiata in più punti, dove al paramento esterno mancano conci; sono lacune che lasciano intuire il possente spessore murario, il preciso disporsi a giunti sfalsati dei laterizi, il cuore forte e nudo della muratura al di là delle sue facciate belle, in una sequenza che racconta una sapienza costruttiva che noi abbiamo perduto per sempre, memoria del tempo in cui nei territori delle Legazioni ancora il l’Impero Romano dettava le leggi del costruire e del demolire, col ritmo di crescita e di distruzione dell’ordine del cosmo.
Entrando, il posto di guardia: lo stanzone quadrato dove stavano soldati e cavalli, pavimentato in cotto e coperto da una volta a crociera, con tre cannoniere e altrettante feritoie. Una scalinatella ricavata nello spessore del muro perimetrale porta all’alloggio del torriere, l’impronta del grande camino nel muro, quattro finestre sui quattro punti cardinali e una volta squarciata per copertura. Oggi il rinfianco superstite della volta è fatto di erba, dove altri armamenti s’incastravano nei merli, ci sono fiori.
Quando poi fu scavato più a nord il nuovo, lungo canale che ancora oggi permette di stupirsi ogni volta che enormi navi sembra che solchino i campi e le pianure e l’ultimo torriere restituì le chiavi della catena che chiudeva l’ingresso fluviale ai marinai che non pagavano il dazio, la Torraccia restò sola a presidiare la fortezza della desolazione, dialogando, ostinata come quelli che parlano fra sé, con la pianura orizzontale e in movimento che l’illude d’essere mare.
Fu verso la fine dell’Ottocento o all’inizio dei cent’anni successivi che un contadino costruì poco distante una casa colonica, una stalla in cui snelle, eleganti colonne portano leggere volte a crociera e una stupenda aia pavimentata dove il crescione e la gramigna, l’ortica e la borragine spuntano dalle fughe delle piastrelle di cotto ancora quasi intatte.
Oltre, fino alla sagoma scura della pineta di Classe e di fianco, fino al mare, campi di erba medica, frutteti e le erbette che farciscono piadine a centinaia.
Vicino ma non troppo, la placida immensa solitudine della grande torre vigila sul nostro tempo immemore, tanto che vorrei un cappello “con i nastri e con le rose” per quanto sono immersa in suggestioni da Gran Tour.
*restano, tra Ravenna e il mare, all’interno del Parco del Delta del Po, due minimi residui del periodo alluvionale di paleolitica memoria, detti appunto Pialasse