PoveraPazza

Pioppi/1

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In principio era un palo. Un palo di legno alto e snello. Di un bel legno chiaro e profumato. Sul suo mantello nudo rimanevano tracce della lama che aveva eliminato pochi giovani rami – solo graffi, abrasioni -, ma alla base la sega lo aveva stroncato. Così era diventato palo, dritto e forte. La sua lunghezza non ne consentiva agili e arditi spostamenti, eppure era arrivato comunque là, al fianco della pianta.
La pianta era un ibrido Thea rampicante e aveva grandi, spettacolari fiori color malva. Ben esposta, addossata al muro basso, la rosa voleva il vento e il vento l’attraversava spargendo intorno il suo inconfondibile profumo; aveva superato il metro di altezza ormai e si distendeva gonfia per il fogliame rigoglioso, verde scuro brillante. Sul finire dell’estate, durante un fortunale, la bella rosa si era ripiegata su se stessa, implorando un sostegno.
Era stato sufficiente scavare una trentina di centimetri e farlo ricadere più volte su se stesso, roteandone l’estremità affinché si conficcasse nel terreno morbido e sciolto, abbastanza profondamente da restare dritto per sostenere il rosaio. Poi, il piede e la vanga avevano raccolto e costipato il terreno intorno alla base, racchiudendola. Le piogge, attese per la stagione meno luminosa, ne avrebbero irrobustito il fusto variandone il diametro dei pori e il sole, poi, l’avrebbe levigato cuocendone la scorza.
Per sicurezza l’avevano legato. Due giri di fil di ferro assicurati a due chiodi simmetrici, perché non cedesse e il palo aveva fatto il suo dovere, sostenendo il tenero rosaio per tutto l’inverno.

Era andata così anche per lui, molto tempo prima. Era stato la sentinella di un matrimonio tardivo, ché sua madre era già vedova e madre di sua sorella quando sposò suo padre, nel millenovecentoventinove. Dicono che lui ne fosse innamorato pazzo, sembra che lei non abbia mai dimenticato il suo primo amore. Legato con fili d’acciaio alle braccia egoiste e severe di una madre avvinta alla propria perdita, nutrito dalla tenera amorevolezza di un padre straordinario narratore di storie, gli capitò, come capita di essere biondi o bruni, alti o bassi, di diventare un pretesto, l’asse di un’asimmetria. Fu a quel tempo che si radicò dentro di lui quella vocazione a sostenere, a essere palo, che avrebbe colorato per sempre il suo modo di essere e di amare. Tra affabulazione e soldatini di piombo, la seconda guerra mondiale attraversò la sua infanzia lasciandolo dormire come un sasso sotto i bombardamenti e segnando i suoi futuri ricordi con tanti episodi che non avrebbe mai smesso di raccontare. Più a se stesso che agli altri, in fondo, perché da uno sguardo posto a nove anni di altezza la guerra può sembrare un gioco, se si ha la fortuna di credere a un genitore che ti protegge con la fantasia, ma poi, a ritrovarsi vivi, si finisce per rammentarsi di esserlo per tutto il tempo che resta. Della sua infanzia gli rimase a lungo un’attitudine a evitare, una capacità di rifugio. E negli occhi, certi paesaggi miseri e autentici, diretti e nudi.

La primavera dalle mie parti arriva presto. A volte si annuncia già da febbraio, in certe giornate tiepide di scirocco e cariche di salmastro. Quell’anno, marzo fu tutto un rincorrersi bizzarro di nuvole e di sole. Le nuvole attraversavano il cielo in un baleno, scaricando improvvisi scrosci di pioggia gelata, andandosene poi alte e bianche verso ovest. E il quattro di aprile pioveva e piovve per quaranta giorni cupi di cielo e di mare, in cui non si potevano sciogliere gli ormeggi e non si poteva seminare. Il palo rimase dritto, quasi fiero, nudo sotto la pioggia che lo abbronzava, perché gli alberi si abbronzano di pioggia.
Timidi e illuminati dalle leggere schiarite del primo pomeriggio, sulla rosa comparvero i primi boccioli. Quando a maggio mi avvicinai con le cesoie alla rosa in piena fioritura, almeno venti fiori la ornavano di esplosioni color malva, che si stagliavano nel cespuglio verde scuro. Delicatamente, con un vago senso di colpa, ne recisi cinque, le più aperte, golosamente offerte, profumate, di oscena bellezza; e poi alzai gli occhi, bloccandomi di meraviglia. Sulla sommità del palo erano spuntati una decina di germogli. Di un verde tenero, piccole foglie ovali si tenevano aggrappate tenacemente a brevi getti vestiti di lanugine bianca. Il palo era vivo. Vivo e vegeto, per la miseria, caparbio, aveva germogliato. Mi sentii pervadere da una specie di felicità assoluta, una pienezza, una dilagante sensazione di vitalità che si trasformò rapidamente in un istintivo bisogno di proteggere. Eccitata e incredula, gli smossi il terreno intorno per ossigenargli la dimora, infilando le dita nella terra. Tagliai quel che restava dei fili di ferro: arrugginiti, friabili, avevano comunque inciso il tronco lasciando due solchi sottili nel mantello, due ferite sulle quali passai le dita, a farmi perdonare.
Sono rapidi, i pioppi, hanno fretta. Alla fine dell’estate, il palo era diventato albero, ancora giovane certo, ma inequivocabilmente albero. I getti erano diventati rami che svettavano verso l’alto, con l’inconfondibile forma slanciata del pioppo bianco.

(/continua)

2 thoughts on “Pioppi/1

  1. e quando continui? E’ bellissimo…

  2. toh, il contadino/marinaio! (presto, promesso) 🙂

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